Un mini libro con racconti sulla magia degli alberi, nati dalla penna della scrittrice trentina Lara Zavatteri.

mercoledì 25 gennaio 2017

L’albera e i falciatori (racconto del libro)

Non tutti lo sanno, anzi ormai saranno rimasti in pochi a ricordarlo, ma gli alberi hanno anche loro delle compagne, che vengono chiamate le albere. Io sono stata per l’appunto una di quelle, cresciuta da sola in mezzo ad una distesa di prati e mentre crescevo donne, uomini e bambini si sedevano appoggiandosi a me, quando il sole estivo batteva forte, nelle pause della fienagione, cercando sotto le mie fronde un po’ di refrigerio.
Per secoli i falciatori e le loro famiglie arrivavano nei prati, solitamente venivano proprio tutti, anche i bambini appena nati, perché non restava nessuno a casa ad accudirli. Li avvolgevano in una copertina e li deponevano tra le mie radici, affinché il sole non li scottasse, ed intanto ci si preparava per le dure ore di lavoro con il caldo che solo ogni tanto dava un po’ di tregua, quando il vento si alzava e anch’io parevo tremare tutta, con le mie foglie che, ballando tutte insieme, producevano un suono come di acqua che scorre.
Era bello per i falciatori sentire quel suono, voleva dire che il vento stava arrivando a dare loro qualche attimo di frescura, che potevano per un momento riposare. Allora tutto si falciava a mano.
Gli uomini arrivavano con le falci e il porta cote agganciato ai pantaloni, dove immergevano la lama della falce per renderla sempre affilata al punto giusto grazie alla pietra che la restituiva tagliente, le donne seguivano ammassando quando era ora l’erba con i rastrelli, fino a formare lunghi cumuli pronti a seccare e a trasformarsi in fieno. Ah, l’odore del fieno! Solo chi abita in montagna o in campagna lo riconosce subito.
È un odore difficile da definire, perché composto dei profumi, degli odori, degli effluvi delle erbe aromatiche e dei fiori che la falce toglieva al terreno e che venivano rilasciati nell’aria quando quell’erba si era seccata. Quando si sentiva quella fragranza voleva dire che l’estate era iniziata, perché i falciatori erano già usciti per tagliare il primo fieno. La si sentiva ovunque, perché allora erano molti i prati che i falciatori dovevano lavorare e così l’erba mentre pian piano si seccava, si tramutava in un profumo dolce e amaro al tempo stesso.
Chi era più lontano da casa, per non dover rifare tutto il tragitto, si portava il pranzo e allora le famiglie si sedevano sotto i miei rami e tra un boccone e l’altro, asciugandosi il sudore della fronte e le donne togliendosi il fazzoletto che le aveva riparate dalla calura, si raccontavano storie, si rideva, a volte si stava solo in silenzio ascoltando i piccoli rumori degli insetti, il volo di una coccinella, il ronzio di un’ape, l'avanzare buffo e goffo di un bombo o di uno di quei maggiolini verdi che sembrano smeraldi. Intanto il caldo torrido finiva e quando i falciatori riprendevano il lavoro faceva ancora caldo, ma non più il caldo opprimente di prima.
Ogni tanto il vento arrivava ad accarezzarmi le foglie e allora tutti udivano il canto dell’albera e restavano qualche istante a sentire quella mia musica fatta di foglie che danzavano sui miei rami. Vedevo anche le donne che, quando era il momento, in campi non lontani tagliavano con il falcetto il grano, che poi veniva legato in grossi covoni, o gli uomini che deviavano l’acqua di una canaletta per far rinverdire i prati, a tutte le ore del giorno e della notte.
Allora si dava grande importanza all’acqua e tutti coloro che falciavano i prati potevano beneficiare della canaletta, spostandone leggermente il corso, ma a turno e solo per un certo tempo stabilito. Guai a chi cercava di fare il furbo e di sgarrare, i turni erano segnati con perizia su un libretto e chi imbrogliava veniva subito scoperto. In tal modo tutti i prati e i campi potevano diventare verdi e far crescere quell'erba che poi faticosamente i falciatori tagliavano. La fatica era la costante che vedevo sotto le mie chiome, ma una fatica buona, che dava soddisfazione a chi lavorava e momenti di pausa che rendevano bella anche la fatica.
Poi tutto cambiò con l’arrivo delle macchine, che tagliavano da sole il fieno, lo giravano, facevano da sole le balle che seccavano al sole. Non occorreva più che tutta la famiglia partecipasse e in pochi restavano a mangiare appoggiati al mio tronco, finché un giorno non venne più nessuno. Più a nessuno interessava il fruscio delle mie foglie, la sinfonia gioiosa che producevano.
E venne anche il giorno in cui più nessuno si ricordò di quella musica e nel giro di poche ore divenni legna da ardere. Mi schiantai al suolo con un tonfo, mentre per l’ultima volta le mie foglie suonavano e cantavano una triste melodia nel vento.
















































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